Indice
1 - Formidabili quegli anni
2 - Humphrey Bogart
3 - Felicità?
4 - In via di estinzione
5 - Un mondo fantastico
6 - Una buona azione
7 - Campioni del mondo
8 - Facile pietà
9 - Via delle Bagasce
10 - La solitudine del Lenzi
11 - Tamponamento
12 - Io e Chang
13 - Pescatore di Burano
14 - Aglio e trasporti
 
   
Aglio e trasporti di ex-terrestre

Sarò ripetitivo ma non è colpa mia, è colpa della vita, è lei ad essere ripetitiva. Con una costanza angosciante ogni giorno il sole prima sorge e poi tramonta, ogni giorno bisogna andare a lavorare e di conseguenza ogni giorno suona la sveglia. Già, io sono fortunato, non sempre ho il turno di mattina, ma quando capita rischio puntualmente l’infarto: quel trabiccolo infernale strilla il suo odio con un furore tale da scaraventarmi letteralmente giù dal letto. Eppure c’è chi parla di ‘sveglia naturale’, un meccanismo oscuro regolato dall’abitudine che desta dal sonno l’individuo sempre alla stessa ora. La mia è mal tarata, è puntata sulle sette, quando la Giogiò (la mia ragazza) demolisce la casa nel tentativo di non far rumore. Certo è una naturalità artigianale, ma nel ventunesimo secolo pure gli alberi sono fasulli, pensate all’arbre magique. Nemmeno tra vent’anni, prevedo, riuscirò a puntare la mia sveglia naturale sulle cinque e quarantacinque…almeno che non riesca a far assumere la Giogiò nella biblioteca di Montebelluna. Un giorno comunque mi è riuscito di svegliarmi prima che il demoniaco aggeggio prendesse a strimpellare le sue note stonate.

La sera prima, ricordo, cenai a base di peperoni ripieni di cipolla, il tutto immerso in una salsa dal nome improponibile, una scia di consonanti inframmezzate da una manciata di vocali made in ucraina. Ci trovavamo ad una cena condominiale, di quelle sovvenzionate dal Comune per favorire l’integrazione. Ci presentammo vestiti di tutto punto e con l’alito alla menta fredda che risultò poco gradito agli altri condomini, tutti dell’est europeo, abituati a ben altre fragranze: aglio per esempio. Tentammo di riparare alla magra figura esibendo un piatto tipicamente veneziano debitamente despeziato per salvaguardare il mio equilibrio mentale. La scelta non riuscì fortunata, il vassoio rimase intonso perché non sapeva da niente come ebbero a dire gli excompagnioramaicondominiperlopiùoggicommensali.

Fortunatamente subodorai in anticipo il fallimento e mi premurai di acquistare una ventina di cartoni di vino ‘primo prezzo’, di quelli con la confezione gialla che spopolano attualmente molto più dell’i-pod. Il vino non è un granché, non sa da niente, ma ha il vantaggio che se lo rigurgiti pure il vomito non sa da niente. Non serve neppure aerare il locale: un vantaggio mica da nulla. Fu un successo e venimmo accolti con applausi nell’allegra combriccola. Fu a causa dei piatti piccanti di quella sera che la mia sveglia naturale si attivò, purtroppo con largo anticipo rispetto al bisogno, infatti alle tre di notte mi ritrovai in piedi, l’occhio spalancato, immobile e trasparente, a trangugiare due ettolitri di camomilla. Tornare a dormire o restare in piedi? L’amletico quesito fu messo a tacere da una vocina remota, lontana ma rassicurante, la voce di Obi-Wan Kenobi che mi suggeriva di non perdere l’occasione e stare sveglio, “La forza è con te” mi assicurò, “E con il tuo spirito” risposi mentre ingollavo un’altra pinta di camomilla tutto d’un fiato.
E vinsi, alle cinque e quarantaquattro, un minuto prima che partisse la sveglia, ero in posizione (chiuso in bagno per non svegliare la Giogiò) con il dannato trabiccolo in mano. Respirai a fondo, contai fino a tre e, prima che la sveglia suonasse, sentii la mia gola urlare un ‘driiin!’ in grado di sgretolare le pareti. Ce l’avevo fatto, avevo svegliato la sveglia, mi ero vendicato…“Grazie Obi Wan”. A parte quell’esempio di eroismo segnato dal trionfo, il resto son solo sconfitte, una scia innumerevole di sconfitte.

Anche stamattina un tonfo dal letto…apro gli occhi e mi ritrovo sul pavimento…la sveglia sbraita sghignazzando diabolicamente…l’afferro e la spengo…“Alla prossima, bello” sento che minaccia. A fatica mi rimetto in piedi, sento le lenzuola frusciare, è la Giogiò che cambia posizione e sentenzia: “E ieri volevi far carambole fino a tardi…per fortuna ti sei bevuto un brodino e hai preso sonno…non hai fisico, guardati!” ma forse è solo una mia allucinazione.

Colazione, preparativi e blablà vari, tutti rigorosamente svolti in modo ipnotico e finalmente esco. Arriva il 2 e, appena salgo, mi accoglie un pesante odore di aglio, il segno distintivo degli occupanti, tutti immigrati cingalesi e dell’est europeo. Lo shock è terrificante, in un battibaleno mi abbandonano le ultime tracce di sonno, svanisce il ricordo del tepore del letto: sono perfettamente sveglio. L’autobus trotterella stancamente fino alla stazione ferroviaria, qui qualcuno scende e una bolgia di indemoniati si scaraventa dentro al mezzo pubblico. Mi passa davanti una donna di mezza età, non bella ma avvolta da una gradevole nuvola di profumo. Sfrutto la scia dell’onda umana e mi lascio trascinare a ridosso della signora, schiacciato all’interno del campo d’azione del suo profumo. Respiro a pieni polmoni quella fragranza d’agrumi ringraziando Dio di aver inventato la donna che ora, solo ora, capisco quale posto occupi nell’economia del mondo. L’incanto non dura a lungo, dentro l’autobus l’aria è sempre più rarefatta e gli unici contenti sono due alpinisti che si stanno allenando per scalare il K2. Son mesi ormai che ci si incontra e scambiamo due chiacchiere. “Allora a quando la partenza?” chiedo, “Partiamo domani, oggi è l’ultimo giorno di allenamento”. “E cosa prevede il programma odierno?” mi incuriosisco io, “Faremo un paio di viaggi sull’82 fino a Rialto, poi pausa fino a sera, fino all’ora dei pendolari che ritornano in terraferma”. Lascio i due al loro addestramento e ritorno sotto l’ala protettrice dell’odorosa signora. Ben presto, tuttavia, l’incanto si infrange, l’aria è così rarefatta che oramai respiro agrumi allo stato puro. Sento grattare la gola mentre le prime lacrime mi scendono dagli occhi, è il segnale, devo cambiare posizione. Ma l’autobus è saturo e mi è impedito qualsiasi movimento. Per giunta la signora non trova di meglio da fare che conficcarmi lo spigolo della borsetta in un fianco, dal dolore spalanco la bocca e faccio incetta di agrumi al punto da sentirmi svenire.

Resisto aggrappandomi più saldamente al corrimano e recito alcune poesie di Montale per evitare di svenire. Il pericolo collasso rientra, almeno fino alla curva successiva quando lo spigolo si impianta con precisione chirurgica nella poca carne tra costola e costola. Un nuovo sospiro di dolore e ingoio altri due litri di essenza di agrumi. “Muoio!” grido con quanto fiato mi resta in gola, ma non esce un suono, gli agrumi hanno anestetizzato le corde vocali. Poi il miracolo, alla fermata della Fincantieri le porte si aprono, gli operai escono e al loro posto sale aria nuova: mai come in quel momento amo l’aria inquinata che ti ammazza senza infastidirti. Nell’autobus semivuoto riesco a trovarmi un posto indolore e mi godo questi ultimi minuti di traversata prima di arrivare a Venezia. Mi guardo attorno e i volti degli occupanti hanno la stessa rilassata allegria di quanti sono usciti illesi da un tamponamento a catena in autostrada. Solo gli alpinisti sono imbronciati, per loro questi minuti che ci separano da P.le Roma sono una perdita di tempo.

Finalmente in Isola, ora bisogna affrontare il motoscafo. Il pontile straripa di gente, si entra dappertutto, preferendo comunque l’uscita all’entrata. Con i capelli e la gola che profumano di agrumi e i vestiti che puzzano d’aglio mi ricavo un posticino in quella ressa. Mi muovo con circospezione, indosso le infradito e devo mettere a riparo i piedi prima che quella selva di scarpe antinfortunistiche sbriciolino i miei fragili ditini. Sarà il mio buffo incedere, saranno i diversi profumi che oramai il mio corpo ha assorbito, fatto sta che sento due tizi commentare: “Varda Mirco, ghe xe anca ogi”, “Chi?” si informa Mirco, “El cuaton slavo”. Difficile giustificarsi con tutti quegli elementi contro di me, quindi perdono e non ribatto.

Il viaggio in motoscafo non è molto differente da quello in autobus, schiacciato dalla gente e immerso nell’aglio. L’unico vantaggio è che a quest’ora si saltano delle fermate e quindi fino ai Giardini non ci si deve spostare di un passo. Prendo il libro lo appoggio sulla schiena del tizio che mi sta davanti e leggo qualche pagina. L’altro non si scompone, è usanza, è regola non scritta di questo motoscafo, così arrivo ai Giardini coccolato dalle pagine del Leggo del tizio alle mie spalle che mi solleticano il collo.
Finalmente al Lido, urrà! Mai pensavo che si potesse essere così contenti di arrivare al lavoro. Anche l’ultima tratta la faccio rigorosamente in piedi, ormai anche l’odore dell’aglio si è attenuato, ma forse è solo un’illusione, mi sa che ne sono saturo.
Stravolto e sfinito arrivo alla Nicopeja, lancio uno sguardo alla statua della Madonna e mi complimento con me stesso perché durante quell’ora e mezzo non l’ho mai ‘nominata’. Adesso mi aspettano sette ore di fatica, bene, sono proprio in gran forma per affrontarle.

Prendo l’ascensore e, mentre mi lascio trasportare all’ultimo piano, vivo quel misto di stanchezza e soddisfazione che prova un maratoneta giunto al traguardo…e finalmente sorrido. Al mio piano scendo e incontro i colleghi che mi accolgono con un “Ma ti gà manià agio geri sera?”…al che non mi resta che rispondere: “In un certo senso sì…ma stamattina”.

 
 
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