Sarò ripetitivo ma non
è colpa mia, è colpa della vita, è lei ad essere
ripetitiva. Con una costanza angosciante ogni giorno il sole prima
sorge e poi tramonta, ogni giorno bisogna andare a lavorare e di
conseguenza ogni giorno suona la sveglia. Già, io sono fortunato,
non sempre ho il turno di mattina, ma quando capita rischio puntualmente
l’infarto: quel trabiccolo infernale strilla il suo odio con
un furore tale da scaraventarmi letteralmente giù dal letto.
Eppure c’è chi parla di ‘sveglia naturale’,
un meccanismo oscuro regolato dall’abitudine che desta dal
sonno l’individuo sempre alla stessa ora. La mia è
mal tarata, è puntata sulle sette, quando la Giogiò
(la mia ragazza) demolisce la casa nel tentativo di non far rumore.
Certo è una naturalità artigianale, ma nel ventunesimo
secolo pure gli alberi sono fasulli, pensate all’arbre magique.
Nemmeno tra vent’anni, prevedo, riuscirò a puntare
la mia sveglia naturale sulle cinque e quarantacinque…almeno
che non riesca a far assumere la Giogiò nella biblioteca
di Montebelluna. Un giorno comunque mi è riuscito di svegliarmi
prima che il demoniaco aggeggio prendesse a strimpellare le sue
note stonate.
La sera prima, ricordo, cenai
a base di peperoni ripieni di cipolla, il tutto immerso in una salsa
dal nome improponibile, una scia di consonanti inframmezzate da
una manciata di vocali made in ucraina. Ci trovavamo ad una cena
condominiale, di quelle sovvenzionate dal Comune per favorire l’integrazione.
Ci presentammo vestiti di tutto punto e con l’alito alla menta
fredda che risultò poco gradito agli altri condomini, tutti
dell’est europeo, abituati a ben altre fragranze: aglio per
esempio. Tentammo di riparare alla magra figura esibendo un piatto
tipicamente veneziano debitamente despeziato per salvaguardare il
mio equilibrio mentale. La scelta non riuscì fortunata, il
vassoio rimase intonso perché non sapeva da niente come ebbero
a dire gli excompagnioramaicondominiperlopiùoggicommensali.
Fortunatamente subodorai in anticipo
il fallimento e mi premurai di acquistare una ventina di cartoni
di vino ‘primo prezzo’, di quelli con la confezione
gialla che spopolano attualmente molto più dell’i-pod.
Il vino non è un granché, non sa da niente, ma ha
il vantaggio che se lo rigurgiti pure il vomito non sa da niente.
Non serve neppure aerare il locale: un vantaggio mica da nulla.
Fu un successo e venimmo accolti con applausi nell’allegra
combriccola. Fu a causa dei piatti piccanti di quella sera che la
mia sveglia naturale si attivò, purtroppo con largo anticipo
rispetto al bisogno, infatti alle tre di notte mi ritrovai in piedi,
l’occhio spalancato, immobile e trasparente, a trangugiare
due ettolitri di camomilla. Tornare a dormire o restare in piedi?
L’amletico quesito fu messo a tacere da una vocina remota,
lontana ma rassicurante, la voce di Obi-Wan Kenobi che mi suggeriva
di non perdere l’occasione e stare sveglio, “La forza
è con te” mi assicurò, “E con il tuo spirito”
risposi mentre ingollavo un’altra pinta di camomilla tutto
d’un fiato.
E vinsi, alle cinque e quarantaquattro, un minuto prima che partisse
la sveglia, ero in posizione (chiuso in bagno per non svegliare
la Giogiò) con il dannato trabiccolo in mano. Respirai a
fondo, contai fino a tre e, prima che la sveglia suonasse, sentii
la mia gola urlare un ‘driiin!’ in grado di sgretolare
le pareti. Ce l’avevo fatto, avevo svegliato la sveglia, mi
ero vendicato…“Grazie Obi Wan”. A parte quell’esempio
di eroismo segnato dal trionfo, il resto son solo sconfitte, una
scia innumerevole di sconfitte.
Anche stamattina un tonfo dal
letto…apro gli occhi e mi ritrovo sul pavimento…la sveglia
sbraita sghignazzando diabolicamente…l’afferro e la
spengo…“Alla prossima, bello” sento che minaccia.
A fatica mi rimetto in piedi, sento le lenzuola frusciare, è
la Giogiò che cambia posizione e sentenzia: “E ieri
volevi far carambole fino a tardi…per fortuna ti sei bevuto
un brodino e hai preso sonno…non hai fisico, guardati!”
ma forse è solo una mia allucinazione.
Colazione, preparativi e blablà
vari, tutti rigorosamente svolti in modo ipnotico e finalmente esco.
Arriva il 2 e, appena salgo, mi accoglie un pesante odore di aglio,
il segno distintivo degli occupanti, tutti immigrati cingalesi e
dell’est europeo. Lo shock è terrificante, in un battibaleno
mi abbandonano le ultime tracce di sonno, svanisce il ricordo del
tepore del letto: sono perfettamente sveglio. L’autobus trotterella
stancamente fino alla stazione ferroviaria, qui qualcuno scende
e una bolgia di indemoniati si scaraventa dentro al mezzo pubblico.
Mi passa davanti una donna di mezza età, non bella ma avvolta
da una gradevole nuvola di profumo. Sfrutto la scia dell’onda
umana e mi lascio trascinare a ridosso della signora, schiacciato
all’interno del campo d’azione del suo profumo. Respiro
a pieni polmoni quella fragranza d’agrumi ringraziando Dio
di aver inventato la donna che ora, solo ora, capisco quale posto
occupi nell’economia del mondo. L’incanto non dura a
lungo, dentro l’autobus l’aria è sempre più
rarefatta e gli unici contenti sono due alpinisti che si stanno
allenando per scalare il K2. Son mesi ormai che ci si incontra e
scambiamo due chiacchiere. “Allora a quando la partenza?”
chiedo, “Partiamo domani, oggi è l’ultimo giorno
di allenamento”. “E cosa prevede il programma odierno?”
mi incuriosisco io, “Faremo un paio di viaggi sull’82
fino a Rialto, poi pausa fino a sera, fino all’ora dei pendolari
che ritornano in terraferma”. Lascio i due al loro addestramento
e ritorno sotto l’ala protettrice dell’odorosa signora.
Ben presto, tuttavia, l’incanto si infrange, l’aria
è così rarefatta che oramai respiro agrumi allo stato
puro. Sento grattare la gola mentre le prime lacrime mi scendono
dagli occhi, è il segnale, devo cambiare posizione. Ma l’autobus
è saturo e mi è impedito qualsiasi movimento. Per
giunta la signora non trova di meglio da fare che conficcarmi lo
spigolo della borsetta in un fianco, dal dolore spalanco la bocca
e faccio incetta di agrumi al punto da sentirmi svenire.
Resisto aggrappandomi più
saldamente al corrimano e recito alcune poesie di Montale per evitare
di svenire. Il pericolo collasso rientra, almeno fino alla curva
successiva quando lo spigolo si impianta con precisione chirurgica
nella poca carne tra costola e costola. Un nuovo sospiro di dolore
e ingoio altri due litri di essenza di agrumi. “Muoio!”
grido con quanto fiato mi resta in gola, ma non esce un suono, gli
agrumi hanno anestetizzato le corde vocali. Poi il miracolo, alla
fermata della Fincantieri le porte si aprono, gli operai escono
e al loro posto sale aria nuova: mai come in quel momento amo l’aria
inquinata che ti ammazza senza infastidirti. Nell’autobus
semivuoto riesco a trovarmi un posto indolore e mi godo questi ultimi
minuti di traversata prima di arrivare a Venezia. Mi guardo attorno
e i volti degli occupanti hanno la stessa rilassata allegria di
quanti sono usciti illesi da un tamponamento a catena in autostrada.
Solo gli alpinisti sono imbronciati, per loro questi minuti che
ci separano da P.le Roma sono una perdita di tempo.
Finalmente in Isola, ora bisogna
affrontare il motoscafo. Il pontile straripa di gente, si entra
dappertutto, preferendo comunque l’uscita all’entrata.
Con i capelli e la gola che profumano di agrumi e i vestiti che
puzzano d’aglio mi ricavo un posticino in quella ressa. Mi
muovo con circospezione, indosso le infradito e devo mettere a riparo
i piedi prima che quella selva di scarpe antinfortunistiche sbriciolino
i miei fragili ditini. Sarà il mio buffo incedere, saranno
i diversi profumi che oramai il mio corpo ha assorbito, fatto sta
che sento due tizi commentare: “Varda Mirco, ghe xe anca ogi”,
“Chi?” si informa Mirco, “El cuaton slavo”.
Difficile giustificarsi con tutti quegli elementi contro di me,
quindi perdono e non ribatto.
Il viaggio in motoscafo non è
molto differente da quello in autobus, schiacciato dalla gente e
immerso nell’aglio. L’unico vantaggio è che a
quest’ora si saltano delle fermate e quindi fino ai Giardini
non ci si deve spostare di un passo. Prendo il libro lo appoggio
sulla schiena del tizio che mi sta davanti e leggo qualche pagina.
L’altro non si scompone, è usanza, è regola
non scritta di questo motoscafo, così arrivo ai Giardini
coccolato dalle pagine del Leggo del tizio alle mie spalle che mi
solleticano il collo.
Finalmente al Lido, urrà! Mai pensavo che si potesse essere
così contenti di arrivare al lavoro. Anche l’ultima
tratta la faccio rigorosamente in piedi, ormai anche l’odore
dell’aglio si è attenuato, ma forse è solo un’illusione,
mi sa che ne sono saturo.
Stravolto e sfinito arrivo alla Nicopeja, lancio uno sguardo alla
statua della Madonna e mi complimento con me stesso perché
durante quell’ora e mezzo non l’ho mai ‘nominata’.
Adesso mi aspettano sette ore di fatica, bene, sono proprio in gran
forma per affrontarle.
Prendo l’ascensore e, mentre
mi lascio trasportare all’ultimo piano, vivo quel misto di
stanchezza e soddisfazione che prova un maratoneta giunto al traguardo…e
finalmente sorrido. Al mio piano scendo e incontro i colleghi che
mi accolgono con un “Ma ti gà manià agio geri
sera?”…al che non mi resta che rispondere: “In
un certo senso sì…ma stamattina”.
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