Sono
nato a Marghera nella casa in cui i miei genitori si sono trasferiti
quando papà è stato assunto in fabbrica. Quando ero
piccolo la sveglia arrivava a colpi di sirena, a me piaceva quel
suono ma il nonno lo detestava, era lo stesso che annunciava le
incursioni aeree in tempo di guerra. Appena partiva il segnale io
mi alzavo e correvo in cucina in cerca di papà, ma papà
era già uscito per andare al lavoro. Solo raramente lo vedevo
prima che uscisse, accadeva quando mi alzavo per andare al bagno.
Era in cucina a raccogliere il cestino col pranzo e la mamma puntualmente
gli diceva: “Muoviti che il sole è già alto”,
e infatti si vedeva il giallo filtrare dalle finestre. Ricordo che
la prima volta che sentii queste parole salii su una sedia e sbirciai
tra le fessure delle tapparelle. Vidi il sole, era grande e giallo
e capii che il sole nasceva da un tubo e solo più tardi saliva
in cielo. Qualche tempo dopo appresi che quello non era il sole
ma la fiamma di scarico che usciva dalla ciminiera, mi sentii uno
sciocco, ma apprezzai il senso dello humour della mamma. Anni felici
quelli di Marghera…
Per le vacanze
non si andava in montagna. Un collega di papà era morto sulle
alpi, “Non ha retto a quell’aria pulita, gli ha completamente
bloccato i polmoni” mi disse il nonno, e io capii che non
si andava in montagna per scaramanzia. Noi si optava per il mare
e andavamo a Campalto. Mi divertivo un sacco a Campalto perché
potevo stare tutto il giorno a mollo, che fossimo in laguna più
che al mare era solo un dettaglio, sempre di acqua si trattava.
Talvolta mio padre mi portava a pescare, ai nostri ami abboccavano
solo i sottoriva, una specie ormai introvabile nei nostri mari.
Il sottoriva, per chi non ha avuto la fortuna di vederlo dal vivo,
è un pesce a tre occhi, ma la vera particolarità sta
nel colore del manto, un verde fosforescente. Mio padre mi raccontò
che i sottoriva nascevano nei pressi dell’Arco di Malcontenta,
“Lì” diceva papà, “hanno trovato
l’habitat ideale per la loro riproduzione, ogni anno puntualmente
arrivano in massa a depositare le uova”.
In spiaggia
c’era da fare mille scoperte e inventare altrettante avventure.
Trovavi copertoni, bottiglie, taniche, qualche ramo, lavatrici,
insomma di tutto di più. Ricordo che il mio gioco preferito
consisteva nel recuperare le bottiglie e cercare se dentro c’era
un messaggio, il messaggio di un naufrago. Ma niente, ogni volta
la bottiglia era vuota e mi consolavo guardando l’etichetta
con quel suo buffo disegno: un teschio con due tibie incrociate.
La prima volta sorrisi e la gettai via, ma la volta dopo avevo già
pronto il modo per utilizzarla: giocavo ai pirati. Con quanto raccattavamo
là attorno, “Dono del mare” diceva papà,
costruivamo un braciere dove cucinavamo i sottoriva e preparavamo
la saltata per la pasta. Che mangiate abbiamo fatto! Sottoriva di
secondo e per primo pasta con i caparozzoli di Fusina, “I
migliori” come sentenziava mio padre. Talvolta ci accontentavamo
di una pasta al pomodoro e, quando andava di lusso, ci grattugiavamo
sopra il formaggio. Io guardavo sbalordito quel blocco di formaggio
tramutarsi come per magia in scaglie.
La mamma allora mi diceva.
“Sai, anche papà ha delle cose fatte così”
e indicava le scaglie, “ce le ha nei polmoni”.
“Wow! Anch’io le voglio” rispondevo io.
“Quando sarai grande, quando sarai grande” mi rassicurava
prontamente lei.
Ogni anno, quindi, aspettavamo con trepidazione che arrivasse agosto,
le fabbriche chiudevano e noi andavamo qualche giorno al mare. Di
andare all’estero neanche a parlarne, mica per via dei soldi,
ma dopo quella volta nessuno volle più saperne. Capitò
quando mio padre ricevette l’indennizzo per un infortunio
che lo rese cieco di un occhio, “Andiamo a Liverpool a vedere
le acciaierie” ci informò tutto pimpante sventolando
l’assegno. Io non sapevo dov’era Liverpool ma dal nome
doveva essere un posto strafigo. Arrivammo all’aeroporto e
tutto filò liscio fino al controllo. Quando passammo attraverso
il metal detector quel congegno prese a suonare come fosse indemoniato.
Ci togliemmo orologi e catenine ma niente, strillava uguale. Ci
levammo tutto e in mutande e canottiera riaffrontammo quell’aggeggio
ma niente, squillava tale e quale.
“Mi dispiace, signori, non posso lasciarvi passare”
decretò il vigilante.
“Sarà che abbiamo accumulato troppi metalli pesanti
con i caparozzoli di Fusina” congetturò mio padre,
“Bene, marcia indietro e tutti al mare”. Io esplosi
dalla gioia, meglio un divertimento sicuro di uno ancora da dimostrare:
avevo sei anni ma ero già un filosofo.
Quell’anno fu un vero disastro, appena arrivati a Campalto
trovammo una miriade di persone con bandiere e striscioni, “Sono
i Verdi” sussurrò papà a mamma. E così
dovemmo a malincuore ritornare casa, la spiaggia era resa inaccessibile
da quegli esaltati.
“Dicono che lo fanno per il nostro bene” ringhiò
mio padre, “le stesse parole che dicono quando bloccano l’accesso
alle fabbriche. Cos’è il nostro bene? Non lavorare?
Morire di fame?”.
“E non poterci divertire?” interrogai io a mezza voce.
“Già, neanche rilassarci ci lasciano” aggiunse
papà e, accarezzandomi, concluse: “Tu sì che
sei intelligente, diventerai sicuramente caporeparto”. Io
volevo diventare filosofo ma non dissi niente per non ferire il
senso d’orgoglio di mio padre.
In fin dei conti anche a casa non si stava male, papà si
prendeva cura dell’orto sotto casa, era un buon coltivatore
e ricavava una lattuga molto saporita, mai altrove ne ho mangiata
di uguale. “E’ l’aria di Marghera” diceva
orgoglioso papà, “un ottimo fertilizzante”. Altro
che l’aria di montagna che ammazza la gente, pensavo io compiaciuto
a mia volta.
Papà nel suo orto, mamma a lavorare in casa e noi a giocare
da mattina a sera. Uno dei nostri divertimenti preferiti era giocare
alla guerra, ogni volta che partiva una sirena bisognava gettarsi
a terra e chi atterrava per ultimo doveva pagare pegno. Ogni tanto
qualcuno non si alzava, morto stecchito, ma eravamo abituati e non
ci restava altro da fare che avvisare i parenti.
Oltre alla guerra si giocava a calcio, come tutti i bambini del
mondo del resto. Il mio fratellino era un vero prodigio, militava
nelle giovanili di una grossa società (se non ricordo male
la prima squadra giocava nel campionato di seconda categoria) e
sembrava destinato ad un futuro da professionista. Poi accadde il
fattaccio, era tempo di visite mediche per l’idoneità
e con il resto della squadra si presentò in ospedale per
la spirometria. Dopo l’esame, invece di rilasciargli l’idoneità,
gli consegnarono un certificato di morte. Fu una tragedia, cancellato
dall’anagrafe oltre a non poter più giocare a calcio
non poté né continuare la scuola né tanto meno
ottenere un lavoro. Tutt’oggi vive nell’ombra, inesistente,
certo gli prescrissero dei psicofarmaci per superare il momentaccio,
ma non sortirono alcun effetto, “Ah ah” si stupì
il medico, “lei è di Marghera. Siamo spiacenti ma laggiù
i farmaci non funzionano” e gli sospesero pure la cura.
Ecco io mi fermo qui. Sono passati tanti anni da quel periodo della
mia fanciullezza, è stato bello ricordarli un po’.
Oramai del nostro gruppo siamo rimasti in quattro….
“Hei, ai letto il giornale?”.
“Ah. Caspita mi dispiace”.
…dicevo del mio gruppo siamo rimasti in tre, ma che formidabili
quegli anni!
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