Indice
1 - Formidabili quegli anni
2 - Humphrey Bogart
3 - Felicità?
4 - In via di estinzione
5 - Un mondo fantastico
6 - Una buona azione
7 - Campioni del mondo
8 - Facile pietà
9 - Via delle Bagasce
10 - La solitudine del Lenzi
11 - Tamponamento
12 - Io e Chang
13 - Pescatore di Burano
14 - Aglio e trasporti
 
   
Formidabili quegli anni di ex-terrestre

Sono nato a Marghera nella casa in cui i miei genitori si sono trasferiti quando papà è stato assunto in fabbrica. Quando ero piccolo la sveglia arrivava a colpi di sirena, a me piaceva quel suono ma il nonno lo detestava, era lo stesso che annunciava le incursioni aeree in tempo di guerra. Appena partiva il segnale io mi alzavo e correvo in cucina in cerca di papà, ma papà era già uscito per andare al lavoro. Solo raramente lo vedevo prima che uscisse, accadeva quando mi alzavo per andare al bagno. Era in cucina a raccogliere il cestino col pranzo e la mamma puntualmente gli diceva: “Muoviti che il sole è già alto”, e infatti si vedeva il giallo filtrare dalle finestre. Ricordo che la prima volta che sentii queste parole salii su una sedia e sbirciai tra le fessure delle tapparelle. Vidi il sole, era grande e giallo e capii che il sole nasceva da un tubo e solo più tardi saliva in cielo. Qualche tempo dopo appresi che quello non era il sole ma la fiamma di scarico che usciva dalla ciminiera, mi sentii uno sciocco, ma apprezzai il senso dello humour della mamma. Anni felici quelli di Marghera…

Per le vacanze non si andava in montagna. Un collega di papà era morto sulle alpi, “Non ha retto a quell’aria pulita, gli ha completamente bloccato i polmoni” mi disse il nonno, e io capii che non si andava in montagna per scaramanzia. Noi si optava per il mare e andavamo a Campalto. Mi divertivo un sacco a Campalto perché potevo stare tutto il giorno a mollo, che fossimo in laguna più che al mare era solo un dettaglio, sempre di acqua si trattava. Talvolta mio padre mi portava a pescare, ai nostri ami abboccavano solo i sottoriva, una specie ormai introvabile nei nostri mari. Il sottoriva, per chi non ha avuto la fortuna di vederlo dal vivo, è un pesce a tre occhi, ma la vera particolarità sta nel colore del manto, un verde fosforescente. Mio padre mi raccontò che i sottoriva nascevano nei pressi dell’Arco di Malcontenta, “Lì” diceva papà, “hanno trovato l’habitat ideale per la loro riproduzione, ogni anno puntualmente arrivano in massa a depositare le uova”.

In spiaggia c’era da fare mille scoperte e inventare altrettante avventure. Trovavi copertoni, bottiglie, taniche, qualche ramo, lavatrici, insomma di tutto di più. Ricordo che il mio gioco preferito consisteva nel recuperare le bottiglie e cercare se dentro c’era un messaggio, il messaggio di un naufrago. Ma niente, ogni volta la bottiglia era vuota e mi consolavo guardando l’etichetta con quel suo buffo disegno: un teschio con due tibie incrociate. La prima volta sorrisi e la gettai via, ma la volta dopo avevo già pronto il modo per utilizzarla: giocavo ai pirati. Con quanto raccattavamo là attorno, “Dono del mare” diceva papà, costruivamo un braciere dove cucinavamo i sottoriva e preparavamo la saltata per la pasta. Che mangiate abbiamo fatto! Sottoriva di secondo e per primo pasta con i caparozzoli di Fusina, “I migliori” come sentenziava mio padre. Talvolta ci accontentavamo di una pasta al pomodoro e, quando andava di lusso, ci grattugiavamo sopra il formaggio. Io guardavo sbalordito quel blocco di formaggio tramutarsi come per magia in scaglie.

La mamma allora mi diceva.
“Sai, anche papà ha delle cose fatte così” e indicava le scaglie, “ce le ha nei polmoni”.
“Wow! Anch’io le voglio” rispondevo io.
“Quando sarai grande, quando sarai grande” mi rassicurava prontamente lei.
Ogni anno, quindi, aspettavamo con trepidazione che arrivasse agosto, le fabbriche chiudevano e noi andavamo qualche giorno al mare. Di andare all’estero neanche a parlarne, mica per via dei soldi, ma dopo quella volta nessuno volle più saperne. Capitò quando mio padre ricevette l’indennizzo per un infortunio che lo rese cieco di un occhio, “Andiamo a Liverpool a vedere le acciaierie” ci informò tutto pimpante sventolando l’assegno. Io non sapevo dov’era Liverpool ma dal nome doveva essere un posto strafigo. Arrivammo all’aeroporto e tutto filò liscio fino al controllo. Quando passammo attraverso il metal detector quel congegno prese a suonare come fosse indemoniato. Ci togliemmo orologi e catenine ma niente, strillava uguale. Ci levammo tutto e in mutande e canottiera riaffrontammo quell’aggeggio ma niente, squillava tale e quale.
“Mi dispiace, signori, non posso lasciarvi passare” decretò il vigilante.
“Sarà che abbiamo accumulato troppi metalli pesanti con i caparozzoli di Fusina” congetturò mio padre, “Bene, marcia indietro e tutti al mare”. Io esplosi dalla gioia, meglio un divertimento sicuro di uno ancora da dimostrare: avevo sei anni ma ero già un filosofo.
Quell’anno fu un vero disastro, appena arrivati a Campalto trovammo una miriade di persone con bandiere e striscioni, “Sono i Verdi” sussurrò papà a mamma. E così dovemmo a malincuore ritornare casa, la spiaggia era resa inaccessibile da quegli esaltati.
“Dicono che lo fanno per il nostro bene” ringhiò mio padre, “le stesse parole che dicono quando bloccano l’accesso alle fabbriche. Cos’è il nostro bene? Non lavorare? Morire di fame?”.
“E non poterci divertire?” interrogai io a mezza voce.
“Già, neanche rilassarci ci lasciano” aggiunse papà e, accarezzandomi, concluse: “Tu sì che sei intelligente, diventerai sicuramente caporeparto”. Io volevo diventare filosofo ma non dissi niente per non ferire il senso d’orgoglio di mio padre.
In fin dei conti anche a casa non si stava male, papà si prendeva cura dell’orto sotto casa, era un buon coltivatore e ricavava una lattuga molto saporita, mai altrove ne ho mangiata di uguale. “E’ l’aria di Marghera” diceva orgoglioso papà, “un ottimo fertilizzante”. Altro che l’aria di montagna che ammazza la gente, pensavo io compiaciuto a mia volta.
Papà nel suo orto, mamma a lavorare in casa e noi a giocare da mattina a sera. Uno dei nostri divertimenti preferiti era giocare alla guerra, ogni volta che partiva una sirena bisognava gettarsi a terra e chi atterrava per ultimo doveva pagare pegno. Ogni tanto qualcuno non si alzava, morto stecchito, ma eravamo abituati e non ci restava altro da fare che avvisare i parenti.
Oltre alla guerra si giocava a calcio, come tutti i bambini del mondo del resto. Il mio fratellino era un vero prodigio, militava nelle giovanili di una grossa società (se non ricordo male la prima squadra giocava nel campionato di seconda categoria) e sembrava destinato ad un futuro da professionista. Poi accadde il fattaccio, era tempo di visite mediche per l’idoneità e con il resto della squadra si presentò in ospedale per la spirometria. Dopo l’esame, invece di rilasciargli l’idoneità, gli consegnarono un certificato di morte. Fu una tragedia, cancellato dall’anagrafe oltre a non poter più giocare a calcio non poté né continuare la scuola né tanto meno ottenere un lavoro. Tutt’oggi vive nell’ombra, inesistente, certo gli prescrissero dei psicofarmaci per superare il momentaccio, ma non sortirono alcun effetto, “Ah ah” si stupì il medico, “lei è di Marghera. Siamo spiacenti ma laggiù i farmaci non funzionano” e gli sospesero pure la cura.
Ecco io mi fermo qui. Sono passati tanti anni da quel periodo della mia fanciullezza, è stato bello ricordarli un po’. Oramai del nostro gruppo siamo rimasti in quattro….
“Hei, ai letto il giornale?”.
“Ah. Caspita mi dispiace”.
…dicevo del mio gruppo siamo rimasti in tre, ma che formidabili quegli anni!

 
 
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