Una mattina me ne uscii di casa
per fare due passi, mi ero svegliato di buonora per buttare giù
qualche riga ma nulla voleva uscirmi dalla penna. Solitamente queste
situazioni mi deprimono, mi pare di sprecare stupidamente le poche
ore libere che riesco a ritagliarmi durante la settimana. Di fatto
molto spesso quando ho del tempo a disposizione mi manca l’ispirazione,
e chiaramente quando la vena creativa prende a pulsare è
il tempo a mancarmi. Questo solo per dire che per la maggior parte
della settimana sono depresso. Tuttavia quel giorno non ero giù
di corda, probabilmente il fatto che la sera me ne sarei andato
a sbevazzare in Isola costituiva un buon lenitivo alla mancanza
di ispirazione. Così, visto che a casa non combinavo nulla
mi lavai i denti, mi sciacquai un’ascella (quella che alzo
per appendermi al corrimano dell’autobus) e mi proiettai nel
mondo, come dicono i filoso-fi. “Qualcosa accadrà”
mi dissi per darmi coraggio, “e se poi non succede niente,
questa sera cer-cherò dentro il bicchiere qualche soggetto
su cui scrivere”. Par inverosimile che tante storie riposino
assonnate dentro i calici di vino, aspettando solo che qualcuno
le inghiotti e le getti, o rigetti, agli affamati consumatori di
internet. Eppure è vero, bicchieri, bottiglie e quant’altro
sono dei veri archivi di racconti, perfino nell’Unicum se
ne trovano, ma bisogna starci attenti, sono storie pericolose che
nel giro di vent’anni ti portano dritto in tomba.
Una meta non me l’ero ancora data e così optai per
il sali sul primo autobus che passa, scegli un passeggero e quando
questo scende, scendi anche tu. Arrivai all’incrocio con via
delle Bagasce, presi un bel respiro carico di smog per acclimatarmi
e senza più indugiare lasciai la tranquillità della
mia via per farmi risucchiare dalla città.
L’arteria era in pieno fermento, come sempre del resto…automobili
sfreccianti…ciclisti a pedalare la loro quotidiana roulette
russa tra gli autobus…pedoni titubanti se attraversare o meno…i
soliti immigrati a confabulare di cricket e delitti.
Prima che potessi aggiungermi agli incerti pedoni per attraversare
a mia volta la strada, un’immagine mi incuriosì e mi
paralizzò: davanti al negozio di chincaglierie cinesi una
miriade di scatoloni aspettava di venir portata all’interno.
Inizialmente mi impressionò la quantità degli imballi
e mi chiesi se fosse mai possibile che quel piccolo negozio li potesse
contenere tutti, poi qualcos’altro catturò la mia attenzione:
c’era solo un uomo a trasportare quei voluminosi contenitori.
Il piccolo cinese faticava non poco, i cartoni dovevano essere tutto
tranne che leggeri a vedere quanta forza impiegasse per spostarli
e quanto sudore gli inondasse il viso. La compassione non è
una virtù che possa onestamente vantare, quindi non fu per
pietà ma forse per curiosità o semplicemente perché
non avevo di meglio da fare, che mi avvicinai e offrii la mia collaborazione.
Il cinese si irrigidì, o non capiva o temeva che gli chiedessi
una ricompensa, allora prontamente gli sillabai, come si fa coi
bambini e gli idioti, “No sol-di…gratis…”.
Mi scrutò di sottecchi, attento e guardingo, poi assentì
muovendo leggermente il capo. “Grazie” dissi e mi sentii
un imbecille, caspita ero io che of-frivo l’aiuto e invece
di venir ringraziato mi ritrovavo io a ringraziare!
Mi tolsi il giubbotto e mi preparai a lavorare, il cinese continuava
a guardarmi con sospetto e di-sprezzo, mi stava sfidando e io raccolsi
la sfida. Per caricarmi mi dissi: “Bene, sono un intellettuale
ma anche uno sportivo, ti faccio vedere io come si lavora”.
Questo non mi bastò per sollevare il primo scatolone, allora
rincarai la dose ricordandomi che ero un veneziano puro sangue,
i miei avi gente dura, abbruttita dalla fame e dalle lunghe ore
in mare a lottare contro il vento e le onde per strappare quel po’
di pesce in grado di sfamare non meno di dieci figli. “Forse
dieci son troppi” obbiettai tra me, ma poi me ne convinsi,
“no, dieci è il minimo, a quell’epoca una donna
che avesse meno di dieci figli si poteva a ragione reputare vergine”.
E così raccolsi le forze e con uno strappo disumano sollevai
uno scatolone e mi diressi dentro il negozio. La fatica era immensa
e il sudore colava copioso dalla mia fronte ma sentivo chiaramente
dietro le mie spalle i bisnonni incitarmi e la sensazione era talmente
viva e reale che l’aria ormai si era fatta pregna del loro
inconfondibile odore di freschin. Appoggiai il pacco lì dove
il cinese mi indicò, a dire il vero non fu proprio con accu-ratezza
che lo misi giù, fu piuttosto come se all’ultimo mi
cadesse.
“Fa attenzione, prego” ordinò quel tale che non
era più un piccolo cinese bisognoso di aiuto ma più
semplicemente un muso giallo. Forse intese il mio disappunto o semplicemente
temeva per la sua merce, fatto sta che divenne più accomodante,
sorrise e iniziammo a trasportare assieme uno scatolone alla volta.
L’atmosfera divenne più rilassata, ma la fatica crebbe
ad ogni viaggio. Mi guardai attorno e mi chiesi come mai quegli
scatoloni pesassero tanto se a guardare nel negozio non c’era
traccia di oggetti né voluminosi né tantomeno pesanti:
solo giocattoli, utensili in plastica e qualche soprammobile di
vetro. Ad un tratto un sospetto, “E se dentro ci fossero cinesi?”,
non sarebbe stata certo una novità, ma rifiutai di credere
a quella supposizione. Finalmente giungemmo agli ultimi pacchi,
dire che ero sfatto è poco, solo l’orgoglio mi faceva
andare avanti. Ad un tratto mi sfuggì la presa e ne facemmo
cadere un altro, “Attento, santo cielo!” sbraitò
il cinese. In quel momento la mia mente fu attraversata da un pensiero,
preciso, lineare, quasi un’illuminazione: “Sono in Terraferma,
un luogo orribile, sto lavorando come un negro e gratis per un tiranno
di cinese. Mi verrebbe voglia di uscire, scippare una vecchietta,
con i soldi comprarmi una pistola e andare in giro a sparare a casaccio
sui passanti: che mi stia integrando? che sia definitivamente e
irrimediabilmente diventato un uomo da grande città?”.
Di nuovo il suo sorriso placò i miei deliri, terminammo il
lavoro e subito il cinese divenne decisamente amabile e prese a
ringraziarmi inchinandosi per un cinque minuti buoni, quasi fossi
una divnità da venerare. Poi si ricompose, allungò
la mano e prese a presentarsi.
…mi son rotto di scrivere con i verbi al passato, cambiamo,
usiamo il presente…
“Mi chiamo Chang”.
“Chang” borbotto pensieroso a mezza voce, “non
è che per caso sei parente del Chang del bar a S. Lio”.
“No no, il fatto è che siamo tutti Chang…diciamo
per rendere più facile il lavoro dell’ufficio immigrazione”
e mi fa d’occhio.
Visto che ci intendiamo butto lì con ironica innocenza: “Eh
già, pare che voi non moriate mai. Morite vero?”.
Allarga un sorrisone, spalanca le braccia e mi chiede: “Ti
pare che io sia morto?”.
Mi infastidisco e ribatto: “Ma recitate o siete davvero mongoli?”.
“Siamo mongoli, caspita se siamo mongoli”.
“Ti chiedo scusa Chang, non volevo offenderti, senza rancore”.
“Ma che rancore!?” ride da ebete, “ma che offesa!?,
mi hai fatto un complimento” e mi abbraccia.
Non capisco più nulla ma Chang chiarisce subito. “Voi
qui a Venezia
dite mongolo per indicare uno stupido o peggio, ma da noi in Cina
significa astuto”.
“Astuto?! Proprio strana la Cina”.
“No, per niente…senti che ti racconto una storia. Quando
Marco Polo…sai chi è Marco Polo?…”
“Sì l’aeroporto. Scherzavo, continua Chang”.
“Non l’ho capita”.
“Chiaro, sei arrivato in Italia dentro uno scatolone”.
“Come?”.
“Niente Chang continua, non ti interrompo più”.
“…dicevo che quando Marco Polo è tornato dalla
Cina credeva di aver fatto affari d’oro, e forse l’aver
commerciato con i Mongoli ha fatto sì che il termine assumesse
una connotazione negativa, visto che credeva di averli fregati”.
“Chang sei uno psicoanalista?”
“No perché?”.
“Visto le tue interpretazioni dei nomi. Continua comunque”.
“L’inghippo è che i Mongoli avevano avuto la
meglio negli affari e da quel momento in Cina mongolo significa
astuto”.
“E perché la meglio?”.
“Perché han venduto a Marco Polo delle finte sete indiane,
mica disonestamente, avevano tutte il loro cartellino made in china”.
Riprende a sistemare gli scatoloni, qualcuno lo apre e sbircia dentro,
altri li lascia da parte. “Deve di sicuro esserci qualcuno
là dentro” non posso evitare di pensare.
“E tu che lavoro fai che sei a spasso di mattina?”.
“Sono uno scrittore”.
Chang esplode in una sonora risata e mi batte divertito la mano
sulla spalla. “Cazzo” penso, “questa non se la
bevono più neanche i cinesi”.
Cambio discorso e gli chiedo se anche lui, come me, abita lì
attorno. Mi risponde che abita a Car-pendo salvo poi aggiungere,
accortosi che la risposta non mi soddisfa: “Comunque ho una
casa anche in cae dee rasse”.
“Caspita, una casa a San
Marco”.
“No no” mi frena lui, “cae dee rasse è
una via di Pechino, in centro sai, a dieci minuti dal ponte di Rialto
Ming”.
Nell’immediato resto basito, poi mi avvolge un senso di fastidio
che ben presto si trasforma in rabbia, rabbia per tanta arroganza
e spudoratezza.
“Caspita Chang, ma non siete capaci di far altro che copiare!?”.
“Copiare!?” inorridisce lui, “ma ti pare credibile
che noi cinesi, con cinque mila anni di storia alle spalle, ci mettiamo
a copiare voi che ne avete sì e no duemila?”.
O e pazzo o mi piglia per scemo, non c’è dubbio. Sopra
la mia testa compare un fumetto con un immenso punto di domanda
e Chang che lo vede si affretta a spiegarsi.
“Guarda ti faccio un esempio, voi siete in attesa del ponte
di Calatrava”.
“Sì”.
“E mi pare che ci sia ancora un bel po’ da aspettare”.
“Già”.
“Bene, noi in Cina ne abbiamo due”.
“Due!?”.
“Sì due, certo solo uno è in uso l’altro…diciamo
che lo teniamo di riserva…ma nulla vieta che per venirvi incontro
ve lo vendiamo”.
Un delirio, non può che essere così, sto vivendo un
incubo, tra poco mi sveglierò e tutto andrà a po-sto.
Ma non mi sveglio e la tortura continua, ora mi assalgono i dubbi,
chi copia chi?, chi mente?. Deci-do di sottrarmi, non riesco a capire
chi dei due sia il pazzo, lui che mi racconta queste storie o io
che rischio di crederci. “Devo andare, ciao Chang alla prossima”
saluto ripromettendomi di evitare in futuro di passare davanti al
negozio. Prima di uscire mi avvicino a uno scatolone, lo accarezzo
e dico: “Benvenuto in Italia, spero ti trovi bene”.
Chang mi saluta con un inchino e leggo nei suoi occhi che lui ha
già deciso chi dei due è il pazzo.
Confuso rincaso e butto giù questa strana esperienza, dovrei
essere contento del fatto che ho trovato qualcosa su cui scrivere
ma un velo di tristezza offusca la mia gioia: sono sicuro che questa
storia, tale e quale, parola per parola, è già stata
scritta secoli fa in Cina.
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