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Briciole 1
Briciole 2
Briciole 3
 
   
1 di ex-terrestre

I bar sono buchi, buchi nelle città. Ogni città, dalla metropoli al paesino, chi più chi meno, ha i suoi buchi. Appartengono alla città ma ne sono al contempo separati, come gocce d’olio in un bicchier d’acqua. I buchi sono anomalie, rischi di cascarci dentro. E quando ci finisci dentro te ne rendi conto. Ogni bar ha il suo stile, il suo barista, la sua clientela. C’è l’osteria tradizionale, il lounge bar, quello anonimo, la bettola. Ci sono pure quelli con il servizio al tavolo, diffidate, promettono un’intimità che non sono in grado di garantire. Il barista, poi, può essere scattante, burbero, svogliato, allegro, maleducato, indifferente.

La clientela infine, varia come è vario il genere umano. Pare incredibile come animali della stessa specie possano essere tanto differenti, talvolta questi branchi si mischiano, più spesso i simili stanno coi simili: ecco formarsi gli habitué. Un tempo ci si rendeva conto immediatamente di essere inciampati in un buco. Aprivi la porta, imbarazzato come una debuttante, e ad accoglierti una zaffata di fumo acre e denso. Adesso che non si può più fumare, ti accoglie un’aria fastidiosamente sana…ora provieni tu dall’inquinamento, sei tu che lo trascini dentro.
Personalmente preferisco i locali poco frequentati, quelli fuori mano o fuori moda per intenderci. Preferisco i baristi svogliati, quelli che finiscono un discorso con un avventore prima di servirti…non ti faranno fretta, non saranno lì a spiarti per proporti un secondo giro.

È questo che mi piace delle città, questi buchi disseminati ovunque, anche nei posti più scomodi, rifugi per emarginati, tane per solitari.
Fu così che mi accadde di entrare in buco fuori mano, due persone su un lato a chiacchierare, un terzo a confabulare con l’oste e un altro ipnotizzato davanti alla tv. Presi posto su uno sgabello e fissai dritto dinanzi a me senza battere ciglio… nel gergo dei bar significa: “Io mi faccio i fatti miei”. Non sto qui a descrivere l’ambiente, non c’era nulla degno di un po’ d’inchiostro. Se almeno fosse stato brutto avrei avuto qualcosa da riferire, ma anonimo e impersonale com’era mi lasciò nella stessa indifferenza con la quale mi accolse. Perfetto.
Dopo un paio di minuti, il tempo di concludere il discorso, strascicando i piedi quasi fossero legati a due palle di pietra, mi si avvicinò il barista, un tipo lungo e affilato come un palo, abbozzò un sorriso stiracchiato dandomi l’impressione che non fosse tra i suoi numeri migliori e mi chiese cosa volessi. Consumato che ebbi il primo giro ne ordinai un altro, senza fretta, con la calma di chi considera il bere non un modo di dissetarsi ma un’arte.

Me ne andai ma inserii l’indirizzo tra i quelli papabili.
Non sto qui a farla lunga, capitai lì con una certa frequenza e le cose vennero da sé. Dapprima due parole col barista poi un discorso: ecco fatto. Entrai ben presto nel clan degli affezionati e presi ad interagire con gli altri frequentatori abituali. Chiacchiere da bar, niente di più, ma un buon modo per passare un paio d’ore. Dettaglio non trascurabile, quasi dimenticavo, nel bar niente donne, un posto per scapoloni o per lo meno per non cacciatori…per buona pace di fidanzate e mogli.
Diventammo col tempo sempre più intimi, Franco, il gestore, un pozzo di battute per gli amici, sguardo torvo per gli sconosciuti, diffidente oltre misura. Andrea, Gianni e Luigi sempre presi a guerreggiare per il campionato di calcio. Mirco, un uomo una tv e Nicola il più normale di tutti, un diploma, un lavoro modesto, nessun grillo per la testa. Nicola mi piaceva, mi piaceva la sua posatezza malgrado le mille difficoltà, trasmetteva serenità. Mirco, però, era il mio preferito, muratore sessantenne, pareva che nulla potesse distrarlo dalla televisione ma poi improvvisamente tornava nel mondo dei vivi, bastava una parola o un’associazione di idee e subito si intrometteva con un “Vi ho mai raccontato di quella volta…” o qualcosa di simile. Non l’ho mai sentito concludere una storia, subito la banda iniziava a ridere, probabilmente ne aveva sparate di grosse nel corso degli anni. Tuttavia mi piaceva, un tipo così non può mancare in un bar.

Tutto accadde un venerdì sera, un venerdì di inizio autunno, piovoso e fresco come tanti. Saranno state le sette quando Nicola comparve nel buco. Noi eravamo già in là con le consumazioni, in fin dei conti era venerdì ed era legittimo far festa. Già, ancora con la fissa di trovare un pretesto per bere… avevamo ancora molta strada davanti prima di diventare dei seri alcolizzati. Vidi subito che qualcosa non andava, Nicola era scuro in volto, più che nervoso pareva assente, dal suo sguardo era scomparsa ogni traccia di quella invidiabile serenità.
“Nicola che c’è?” provai a chiedere, ma non mi sentì neppure.
“Buonasera” disse calmo ed educato ancor più del solito. “Questa sarebbe una rapina, siete pregati di stare calmi. Tu, Franco, metti sul banco tutti i soldi che hai in cassa. Grazie” concluse sullo stesso tono.
Scoppiammo in una risata da spaccare il cielo. Non avevo mai pensato ad un rapinatore calmo, quasi imbarazzato, che con timidezza ordina di vuotare le tasche. Avesse almeno detto ‘sganciare il malloppo’ in perfetto stile gangster. Troppo assurdo, così irreale da risultare grottesco: se voleva farci uno scherzo aveva colto nel segno.
Ma non voleva divertirci, alle nostre risa rispose estraendo un fucile che appoggiò delicatamente sopra il bancone. Lì per lì rimanemmo paralizzati, zittiti all’istante, poi la tensione si sciolse…non poteva che essere un fucile giocattolo. Reagimmo con una nuova risata, più contenuta stavolta, alla fin fine un dubbio ce l’aveva insinuato con quella messinscena.
Non perse tempo, sparò un colpo contro il lampadario e, man mano che i frammenti di vetro si sparpagliavano a terra, riprese con quel suo tono artificialmente gentile, estremamente rilassato e misurato: “Ribadisco che questa è una rapina, vi sarei grato se svuotaste la cassa e i vostri portafogli”. Mi si gelò il sangue e credo non solo a me, visto le espressioni degli altri. “Sembriamo una fotografia tanto siamo immobili” pensai divertito, ma subito il riso mi affondò in gola e deglutii preoccupato. Nessuno fiatava e solo il drin della cassa che si apriva ci svegliò dal torpore ricordandoci di tirare fuori i soldi. Tutto avvenne meccanicamente e nel più assoluto silenzio: l’incredulità iniziale si era trasformata in terrore.
“Bene, ora Franco usami la cortesia di prepararmi uno spritz al Bitter e voi bevete pure quello che volete, anche tu Franco”. L’oste obbedì e noi ordinammo da bere vuoi per non contraddire Nicola vuoi nella speranza che la tensione andasse allentandosi. Ma non fu così, malgrado Nicola alzasse il bicchiere augurando “Salute”, l’atmosfera non smise di essere di una gravità mai vista.
“Ora” riprese il nostro sequestratore, “vi chiedo la cortesia di appoggiare sul bancone i vostri documenti”. I documenti?! Obbedimmo senza indugio, ormai era chiaro che avevamo a che fare con un pazzo, e con i pazzi non si sa mai come possa andare a finire.

Col fucile sempre vicino Nicola estrasse un blocchetto e prese a scriverci sopra, un occhio al foglio e un occhio a noi. Nessuno si mosse, in quel bar per solitari non c’erano eroi, gente da medaglia al valore, c’era solo un gruppo di disperati che non contava niente nel mondo, e ora neppure dentro quel buco nel quale si sentivano qualcuno.

Tra un sorso al bicchiere e congetture su cosa stesse scrivendo quel pazzo, trascorse una mezz’ora. Poi qualcosa cambiò. Un urlo di sirene squarciò il silenzio: qualcuno, forse un passante, aveva avvisato la questura.
“Polizia” gracchiò una voce metallica da un megafono, “esci con le mani bene in alto, non peggiorare la tua situazione”. Nicola abbozzò un sorriso malevolo poi, incurante dell’intimidazione, si concentrò nuovamente sul suo blocchetto.
“Nicola ascolta” tentò di convincerlo Franco, “finiamola qui, metti giù quel fucile, io non sporgerò denuncia e tutto finirà con una bevuta”.
“Grazie dell’offerta, ma non posso accettare. Ora ti chiedo di non disturbarmi, sto scrivendo”. Franco non aggiunse altro, quando hai un bar ti senti in dovere di risolvere le situazioni, ma dietro il bancone impari a conoscere la gente e sai bene quando è giunto il momento di tornartene ad asciugare le stoviglie.
“Ehi tu nel locale, è la polizia, se non ti arrendi saremo costretti ad usare la forza”.
Nicola sbuffò spazientito, prese il telefono e compose il 113. “Pronto buongiorno, sono il rapinatore del bar…sì quello lì…ora dovrebbe farmi la cortesia di avvisare i suoi colleghi che non mi stiano più ad infastidire con quel megafono. Ho un fucile” e ci fissò in modo cattivo, “e non vorrei trovarmi costretto ad usarlo, grazie e arrivederci”. Riagganciò e si rituffò nel suo blocchetto. Dopo nemmeno un minuto il telefono squillò, doveva essere la polizia da come disgustato guardò il quadrante che si illuminava. Senza batter ciglio annegò il telefono nel barilotto delle olive.
Il tempo passava lento ma passava e a un tratto il silenzio venne infranto da un allegro “Ecco fatto, perfetto”.
“E ora cosa accadrà?” mi chiesi stanco e preoccupato mentre lo guardavo terminare il suo spritz.. Nicola strappò dei fogli da quel blocchetto, li appoggiò poco discosto da lui e vi pose sopra il bicchiere vuoto perché non volassero via. Sarà stato lo stress, la paura o non so cosa, fatto sta che mi parve che quella scena si fosse svolta con una lentezza estrema, una lentezza innaturale, temetti di svenire. “Bene” disse Nicola, “ciao a tutti e buon futuro…forse un giorno ci riderete sopra”. Staccò il caricatore e lo appoggiò insieme al fucile sul bancone, girò su se stesso e uscì dal bar consegnandosi alle forze dell’ordine. Adesso il film aveva preso una velocità tale che non afferrai nemmeno una parola, solo quando la porta si chiuse dietro al nostro sequestratore riuscii a risentire il saluto di congedo.

Nicola svanì inghiottito dal mondo ma dentro nulla pareva mutato. Nessuno si mosse, nessuno fiatò, rimanemmo ancora immobili, paralizzati…alla faccia di chi dice che l’alcool scioglie i muscoli. Poi uno, non ricordo chi, mosse il primo passo e le catene di tutti si ruppero, ci avvicinammo al banco e vedemmo il fucile e il caricatore a testimoniare che non si era trattato di un incubo o di un’allucinazione collettiva di poveri ubriaconi: tutto era accaduto realmente. Osservammo i soldi della cassa e i nostri portafogli, non erano stati toccati, neanche spostati, poi la nostra curiosità venne attratta dai foglietti sotto il bicchiere. Li prendemmo, leggemmo, e un nuovo stupore ci raggelò, poi entrò il commissario e tra domande e chiarimenti la vita riprese il suo corso.
Franco e tutti noi non sporgemmo denuncia, Nicola se la cavò con un periodo di ricovero in una clinica psichiatrica, nulla di più normale, anche se noi non lo ritenevamo necessario. O meglio, all’inizio eravamo convinti che una qualche cura gli avrebbe fatto bene, poi ci convincemmo del contrario e, ridendoci su, capimmo il senso autentico di quel gesto assurdo.

Per quel che ne so Nicola ora vive in un paesino incastonato tra le montagne del Veneto, il suo sogno si è realizzato e penso che non lo rivedremo più. Sono contento per lui ma mi spiace per noi, abbiamo perso un compagno di viaggio.
Non ho detto nulla di quei foglietti be’, erano assegni, assegni sostanziosi, estremamente sostanziosi, intestati ad ognuno di noi. Ecco il perché dei documenti! Nella nostra intimità da bar c’erano sempre stati solo i nomi, i cognomi appartenevano al mondo di fuori.

Quel pazzo di Nicola aveva vinto il jackpot al Superenalotto, si era comprato la casa in montagna e il resto aveva deciso di dividerlo tra di noi, tra i solitari del bar fuori mano. Non so bene se avesse architettato il tutto per evitare un nostro rifiuto, per risparmiarci l’imbarazzo o semplicemente per farci uno scherzo, uno scherzo pesante ma il minimo in cambio di quanto avremmo ottenuto: quasi un pagamento per non farci sentire in debito. Forse fu un po’ di tutto a spingerlo a tanto, non ci interessa, per noi rimarrà un amico, un grande amico.

Ora abbiamo più soldi ma non abbiamo smesso di ritrovarci nel nostro piccolo mondo, nel nostro buco, dove non sappiamo se ci siamo per scelta o perché qualcuno ci ha buttato. Poco importa, qui siamo un pelo più felici, la nostra disperazione un po’ si attenua e riusciamo a ridere sopra le nostre miserie, miserie che i soldi possono velare ma non cancellare.

Da un paio di giorni si fa vedere un tale tutto giacca e cravatta, noi lo guardiamo torvi e diffidenti, ma non abbiamo pregiudizi. Ieri quando è entrato stavano dando Juventus-Inter per tv. Ha gettato uno sguardo allo schermo, non pareva interessato, ma neanche il contrario.
“Sei juventino?” gli ha chiesto Gianni dopo che la Juve ebbe incassato un gol.
“No, tifo per il Milan” ha risposto quello.
“Eh, quella volta che ero a San Siro e pioveva…” ha attaccato immancabilmente Mirco. Ci fu una risata, ma stavolta fu una ballerina che si contorceva provocante sullo schermo a stoppare Mirco dal suo racconto.
Via due chiacchiere poi le mani che si stringono con tutti noi. Ecco Marco, assicuratore di Campalto. Ora Marco fa parte del gruppo, è uno di noi.
E i giorni passano, sempre uguali, sempre diversi. Ieri per esempio eravamo lì, squadra al completo, quando Mirco ruppe il silenzio con un:
“Ehi Marco ti ho mai raccontato…” e giù una risata, “…ti ho mai raccontato la storia del nostro amico Nicola?”. La nostra risata sfiorì in un modesto sorriso. Marco probabilmente percepì che non si trattava della solita panzana e invitò:
“No Mirco, su racconta”.
“Era un venerdì sera, sarà stato un paio di anni fa…” e per la prima volta Mirco poté concludere un racconto senza che nessuno e nulla lo interrompesse.

 
 
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