I bar sono buchi, buchi nelle città.
Ogni città, dalla metropoli al paesino, chi più chi
meno, ha i suoi buchi. Appartengono alla città ma ne sono
al contempo separati, come gocce d’olio in un bicchier d’acqua.
I buchi sono anomalie, rischi di cascarci dentro. E quando ci finisci
dentro te ne rendi conto. Ogni bar ha il suo stile, il suo barista,
la sua clientela. C’è l’osteria tradizionale,
il lounge bar, quello anonimo, la bettola. Ci sono pure quelli con
il servizio al tavolo, diffidate, promettono un’intimità
che non sono in grado di garantire. Il barista, poi, può
essere scattante, burbero, svogliato, allegro, maleducato, indifferente.
La clientela infine, varia come
è vario il genere umano. Pare incredibile come animali della
stessa specie possano essere tanto differenti, talvolta questi branchi
si mischiano, più spesso i simili stanno coi simili: ecco
formarsi gli habitué. Un tempo ci si rendeva conto immediatamente
di essere inciampati in un buco. Aprivi la porta, imbarazzato come
una debuttante, e ad accoglierti una zaffata di fumo acre e denso.
Adesso che non si può più fumare, ti accoglie un’aria
fastidiosamente sana…ora provieni tu dall’inquinamento,
sei tu che lo trascini dentro.
Personalmente preferisco i locali poco frequentati, quelli fuori
mano o fuori moda per intenderci. Preferisco i baristi svogliati,
quelli che finiscono un discorso con un avventore prima di servirti…non
ti faranno fretta, non saranno lì a spiarti per proporti
un secondo giro.
È questo che mi piace delle
città, questi buchi disseminati ovunque, anche nei posti
più scomodi, rifugi per emarginati, tane per solitari.
Fu così che mi accadde di entrare in buco fuori mano, due
persone su un lato a chiacchierare, un terzo a confabulare con l’oste
e un altro ipnotizzato davanti alla tv. Presi posto su uno sgabello
e fissai dritto dinanzi a me senza battere ciglio… nel gergo
dei bar significa: “Io mi faccio i fatti miei”. Non
sto qui a descrivere l’ambiente, non c’era nulla degno
di un po’ d’inchiostro. Se almeno fosse stato brutto
avrei avuto qualcosa da riferire, ma anonimo e impersonale com’era
mi lasciò nella stessa indifferenza con la quale mi accolse.
Perfetto.
Dopo un paio di minuti, il tempo di concludere il discorso, strascicando
i piedi quasi fossero legati a due palle di pietra, mi si avvicinò
il barista, un tipo lungo e affilato come un palo, abbozzò
un sorriso stiracchiato dandomi l’impressione che non fosse
tra i suoi numeri migliori e mi chiese cosa volessi. Consumato che
ebbi il primo giro ne ordinai un altro, senza fretta, con la calma
di chi considera il bere non un modo di dissetarsi ma un’arte.
Me ne andai ma inserii l’indirizzo
tra i quelli papabili.
Non sto qui a farla lunga, capitai lì con una certa frequenza
e le cose vennero da sé. Dapprima due parole col barista
poi un discorso: ecco fatto. Entrai ben presto nel clan degli affezionati
e presi ad interagire con gli altri frequentatori abituali. Chiacchiere
da bar, niente di più, ma un buon modo per passare un paio
d’ore. Dettaglio non trascurabile, quasi dimenticavo, nel
bar niente donne, un posto per scapoloni o per lo meno per non cacciatori…per
buona pace di fidanzate e mogli.
Diventammo col tempo sempre più intimi, Franco, il gestore,
un pozzo di battute per gli amici, sguardo torvo per gli sconosciuti,
diffidente oltre misura. Andrea, Gianni e Luigi sempre presi a guerreggiare
per il campionato di calcio. Mirco, un uomo una tv e Nicola il più
normale di tutti, un diploma, un lavoro modesto, nessun grillo per
la testa. Nicola mi piaceva, mi piaceva la sua posatezza malgrado
le mille difficoltà, trasmetteva serenità. Mirco,
però, era il mio preferito, muratore sessantenne, pareva
che nulla potesse distrarlo dalla televisione ma poi improvvisamente
tornava nel mondo dei vivi, bastava una parola o un’associazione
di idee e subito si intrometteva con un “Vi ho mai raccontato
di quella volta…” o qualcosa di simile. Non l’ho
mai sentito concludere una storia, subito la banda iniziava a ridere,
probabilmente ne aveva sparate di grosse nel corso degli anni. Tuttavia
mi piaceva, un tipo così non può mancare in un bar.
Tutto accadde un venerdì
sera, un venerdì di inizio autunno, piovoso e fresco come
tanti. Saranno state le sette quando Nicola comparve nel buco. Noi
eravamo già in là con le consumazioni, in fin dei
conti era venerdì ed era legittimo far festa. Già,
ancora con la fissa di trovare un pretesto per bere… avevamo
ancora molta strada davanti prima di diventare dei seri alcolizzati.
Vidi subito che qualcosa non andava, Nicola era scuro in volto,
più che nervoso pareva assente, dal suo sguardo era scomparsa
ogni traccia di quella invidiabile serenità.
“Nicola che c’è?” provai a chiedere, ma
non mi sentì neppure.
“Buonasera” disse calmo ed educato ancor più
del solito. “Questa sarebbe una rapina, siete pregati di stare
calmi. Tu, Franco, metti sul banco tutti i soldi che hai in cassa.
Grazie” concluse sullo stesso tono.
Scoppiammo in una risata da spaccare il cielo. Non avevo mai pensato
ad un rapinatore calmo, quasi imbarazzato, che con timidezza ordina
di vuotare le tasche. Avesse almeno detto ‘sganciare il malloppo’
in perfetto stile gangster. Troppo assurdo, così irreale
da risultare grottesco: se voleva farci uno scherzo aveva colto
nel segno.
Ma non voleva divertirci, alle nostre risa rispose estraendo un
fucile che appoggiò delicatamente sopra il bancone. Lì
per lì rimanemmo paralizzati, zittiti all’istante,
poi la tensione si sciolse…non poteva che essere un fucile
giocattolo. Reagimmo con una nuova risata, più contenuta
stavolta, alla fin fine un dubbio ce l’aveva insinuato con
quella messinscena.
Non perse tempo, sparò un colpo contro il lampadario e, man
mano che i frammenti di vetro si sparpagliavano a terra, riprese
con quel suo tono artificialmente gentile, estremamente rilassato
e misurato: “Ribadisco che questa è una rapina, vi
sarei grato se svuotaste la cassa e i vostri portafogli”.
Mi si gelò il sangue e credo non solo a me, visto le espressioni
degli altri. “Sembriamo una fotografia tanto siamo immobili”
pensai divertito, ma subito il riso mi affondò in gola e
deglutii preoccupato. Nessuno fiatava e solo il drin della cassa
che si apriva ci svegliò dal torpore ricordandoci di tirare
fuori i soldi. Tutto avvenne meccanicamente e nel più assoluto
silenzio: l’incredulità iniziale si era trasformata
in terrore.
“Bene, ora Franco usami la cortesia di prepararmi uno spritz
al Bitter e voi bevete pure quello che volete, anche tu Franco”.
L’oste obbedì e noi ordinammo da bere vuoi per non
contraddire Nicola vuoi nella speranza che la tensione andasse allentandosi.
Ma non fu così, malgrado Nicola alzasse il bicchiere augurando
“Salute”, l’atmosfera non smise di essere di una
gravità mai vista.
“Ora” riprese il nostro sequestratore, “vi chiedo
la cortesia di appoggiare sul bancone i vostri documenti”.
I documenti?! Obbedimmo senza indugio, ormai era chiaro che avevamo
a che fare con un pazzo, e con i pazzi non si sa mai come possa
andare a finire.
Col fucile sempre vicino Nicola
estrasse un blocchetto e prese a scriverci sopra, un occhio al foglio
e un occhio a noi. Nessuno si mosse, in quel bar per solitari non
c’erano eroi, gente da medaglia al valore, c’era solo
un gruppo di disperati che non contava niente nel mondo, e ora neppure
dentro quel buco nel quale si sentivano qualcuno.
Tra un sorso al bicchiere e congetture
su cosa stesse scrivendo quel pazzo, trascorse una mezz’ora.
Poi qualcosa cambiò. Un urlo di sirene squarciò il
silenzio: qualcuno, forse un passante, aveva avvisato la questura.
“Polizia” gracchiò una voce metallica da un megafono,
“esci con le mani bene in alto, non peggiorare la tua situazione”.
Nicola abbozzò un sorriso malevolo poi, incurante dell’intimidazione,
si concentrò nuovamente sul suo blocchetto.
“Nicola ascolta” tentò di convincerlo Franco,
“finiamola qui, metti giù quel fucile, io non sporgerò
denuncia e tutto finirà con una bevuta”.
“Grazie dell’offerta, ma non posso accettare. Ora ti
chiedo di non disturbarmi, sto scrivendo”. Franco non aggiunse
altro, quando hai un bar ti senti in dovere di risolvere le situazioni,
ma dietro il bancone impari a conoscere la gente e sai bene quando
è giunto il momento di tornartene ad asciugare le stoviglie.
“Ehi tu nel locale, è la polizia, se non ti arrendi
saremo costretti ad usare la forza”.
Nicola sbuffò spazientito, prese il telefono e compose il
113. “Pronto buongiorno, sono il rapinatore del bar…sì
quello lì…ora dovrebbe farmi la cortesia di avvisare
i suoi colleghi che non mi stiano più ad infastidire con
quel megafono. Ho un fucile” e ci fissò in modo cattivo,
“e non vorrei trovarmi costretto ad usarlo, grazie e arrivederci”.
Riagganciò e si rituffò nel suo blocchetto. Dopo nemmeno
un minuto il telefono squillò, doveva essere la polizia da
come disgustato guardò il quadrante che si illuminava. Senza
batter ciglio annegò il telefono nel barilotto delle olive.
Il tempo passava lento ma passava e a un tratto il silenzio venne
infranto da un allegro “Ecco fatto, perfetto”.
“E ora cosa accadrà?” mi chiesi stanco e preoccupato
mentre lo guardavo terminare il suo spritz.. Nicola strappò
dei fogli da quel blocchetto, li appoggiò poco discosto da
lui e vi pose sopra il bicchiere vuoto perché non volassero
via. Sarà stato lo stress, la paura o non so cosa, fatto
sta che mi parve che quella scena si fosse svolta con una lentezza
estrema, una lentezza innaturale, temetti di svenire. “Bene”
disse Nicola, “ciao a tutti e buon futuro…forse un giorno
ci riderete sopra”. Staccò il caricatore e lo appoggiò
insieme al fucile sul bancone, girò su se stesso e uscì
dal bar consegnandosi alle forze dell’ordine. Adesso il film
aveva preso una velocità tale che non afferrai nemmeno una
parola, solo quando la porta si chiuse dietro al nostro sequestratore
riuscii a risentire il saluto di congedo.
Nicola svanì inghiottito
dal mondo ma dentro nulla pareva mutato. Nessuno si mosse, nessuno
fiatò, rimanemmo ancora immobili, paralizzati…alla
faccia di chi dice che l’alcool scioglie i muscoli. Poi uno,
non ricordo chi, mosse il primo passo e le catene di tutti si ruppero,
ci avvicinammo al banco e vedemmo il fucile e il caricatore a testimoniare
che non si era trattato di un incubo o di un’allucinazione
collettiva di poveri ubriaconi: tutto era accaduto realmente. Osservammo
i soldi della cassa e i nostri portafogli, non erano stati toccati,
neanche spostati, poi la nostra curiosità venne attratta
dai foglietti sotto il bicchiere. Li prendemmo, leggemmo, e un nuovo
stupore ci raggelò, poi entrò il commissario e tra
domande e chiarimenti la vita riprese il suo corso.
Franco e tutti noi non sporgemmo denuncia, Nicola se la cavò
con un periodo di ricovero in una clinica psichiatrica, nulla di
più normale, anche se noi non lo ritenevamo necessario. O
meglio, all’inizio eravamo convinti che una qualche cura gli
avrebbe fatto bene, poi ci convincemmo del contrario e, ridendoci
su, capimmo il senso autentico di quel gesto assurdo.
Per quel che ne so Nicola ora
vive in un paesino incastonato tra le montagne del Veneto, il suo
sogno si è realizzato e penso che non lo rivedremo più.
Sono contento per lui ma mi spiace per noi, abbiamo perso un compagno
di viaggio.
Non ho detto nulla di quei foglietti be’, erano assegni, assegni
sostanziosi, estremamente sostanziosi, intestati ad ognuno di noi.
Ecco il perché dei documenti! Nella nostra intimità
da bar c’erano sempre stati solo i nomi, i cognomi appartenevano
al mondo di fuori.
Quel pazzo di Nicola aveva vinto
il jackpot al Superenalotto, si era comprato la casa in montagna
e il resto aveva deciso di dividerlo tra di noi, tra i solitari
del bar fuori mano. Non so bene se avesse architettato il tutto
per evitare un nostro rifiuto, per risparmiarci l’imbarazzo
o semplicemente per farci uno scherzo, uno scherzo pesante ma il
minimo in cambio di quanto avremmo ottenuto: quasi un pagamento
per non farci sentire in debito. Forse fu un po’ di tutto
a spingerlo a tanto, non ci interessa, per noi rimarrà un
amico, un grande amico.
Ora abbiamo più soldi ma
non abbiamo smesso di ritrovarci nel nostro piccolo mondo, nel nostro
buco, dove non sappiamo se ci siamo per scelta o perché qualcuno
ci ha buttato. Poco importa, qui siamo un pelo più felici,
la nostra disperazione un po’ si attenua e riusciamo a ridere
sopra le nostre miserie, miserie che i soldi possono velare ma non
cancellare.
Da un paio di giorni si fa vedere
un tale tutto giacca e cravatta, noi lo guardiamo torvi e diffidenti,
ma non abbiamo pregiudizi. Ieri quando è entrato stavano
dando Juventus-Inter per tv. Ha gettato uno sguardo allo schermo,
non pareva interessato, ma neanche il contrario.
“Sei juventino?” gli ha chiesto Gianni dopo che la Juve
ebbe incassato un gol.
“No, tifo per il Milan” ha risposto quello.
“Eh, quella volta che ero a San Siro e pioveva…”
ha attaccato immancabilmente Mirco. Ci fu una risata, ma stavolta
fu una ballerina che si contorceva provocante sullo schermo a stoppare
Mirco dal suo racconto.
Via due chiacchiere poi le mani che si stringono con tutti noi.
Ecco Marco, assicuratore di Campalto. Ora Marco fa parte del gruppo,
è uno di noi.
E i giorni passano, sempre uguali, sempre diversi. Ieri per esempio
eravamo lì, squadra al completo, quando Mirco ruppe il silenzio
con un:
“Ehi Marco ti ho mai raccontato…” e giù
una risata, “…ti ho mai raccontato la storia del nostro
amico Nicola?”. La nostra risata sfiorì in un modesto
sorriso. Marco probabilmente percepì che non si trattava
della solita panzana e invitò:
“No Mirco, su racconta”.
“Era un venerdì sera, sarà stato un paio di
anni fa…” e per la prima volta Mirco poté concludere
un racconto senza che nessuno e nulla lo interrompesse.
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